FEDERICO IRIS OSMO TINELLI
- "uozzap" (Italia, 2017, 78’00’’)
Tendiamo spesso a ritenere il film come un mezzo che rimanda a una realtà oggettiva, che si pretende uguale per tutti, e conseguentemente che il suo linguaggio sia trasparente. Ora, al netto delle infinite discussioni sulla rappresenzazione filmica della realtà e sui realismi (naturalismo, surrealismo, neorealismo, iper realismo, ecc...) che dal romanzo sono trasmigrati al cinema, è indubbio che in "Uozzap" di Federico Iris Osmo Tinelli (nome? pseudonimo? avatar?) sia il linguaggio stesso utilizzato dall'autore che diviene realtà, oggetto dei nostri sensi e del nostro intelletto. Che linguaggio? Non credo ci possano essere etichette per definire questa ludica esplosione polisemica di forme significanti, che si offre nella sua dimensione verbale (grafica / acustica) e iconica ma procede per metamorfosi per cui il verbo si fa icona dinamica a corredo di un'immagine filmica spesso slegata dalla sua componente acustica, eco incessante, a tratti ironico e persino divertente.
"In principio era il verbo", e scusate la consunta citazione evangelica, ma mi vien da pensare che il pretesto del film (messaggi vocali su whatsapp) qui divenuto testo, è struttura tra le cui trame si smarrisce l'originaria vocazione (termine quanto mai pertinente se pensiamo al suo significato originario di "chiamata" rivolta da Dio alla creatura umana), per cui la "finalità" comunicativa viene piegata a qualcosa di "indefinito". All'autore (e aggiungo: allo spettatore) interessa ben poco riflettere sulla pretesa funzione comunicativa di tale messaggeria: è dai resti di questa pretesa che viene elaborato un nuovo messaggio il cui destinatario diffuso coincide con il mittente stesso, in un infinito andamento circolare.
In effetti "Uozzap" non ha una sua linearità consequenziale, non ha un inizio e una fine, e il suo centro si sposta continuamente in una sorta di danzante monologo acustico e visivo. Così i "vocali" sono i frammenti sparsi rigurgitati e reinviati allo spettatore all'interno di un discorso personale.
L'autore ci mette la faccia, cammeo onnipresente di una messa in scena narcisistica della propria realtà quotidiana fatta di amici, amiche, madri, amanti, e di echi filmici (Kubrick), rappresentazione di rappresentazioni che nutrono riflessioni, ricordi, sogni, contrappuntisticamente giustapposti a crude visioni endoscopiche.
Federico Iris Osmo Tinelli si confessa, tra i desideri della carne, incisa chirurgicamente, e angosce di castrazione, lungo percorsi transessualmente altalenanti, diviso tra un Dio cristiano, "chiamato" e bistrattato, e un Dio ebraico dai contorni materni, tra la Legge paterna e il capriccio infantile che vorrebbe negarla. Ma tale convulsa e spumeggiante confessione ha un suo ritmo che ci coinvolge in una mai sopita tensione estetica, temerariamente offerta all'attenzione del pubblico e dei soci del Cineclub FEDIC Cagliari.
Pio Bruno